


Il giardino delle stanze sonore
Fammi vento che naviga felice
Il luogo è un confine, un limite, nelle forme di una siepe, una massa di Prunus laurocerasus, potata per anni e poi abbandonata ai rovi. Dal dopoguerra, nella nostra pianura, la siepe di lauroceraso è simbolo di borghesia che conquista la campagna, è la trincea che separa il giardino dal campo, il vivere moderno da quello antico; piace in volumi rigidi, squadrati e per questo lo si pota una o due volte l’anno. Quando viene abbandonata le sue dimensioni in pochi anni esplodono, mantenendo, anzi esaltando quel senso di chiuso, di barriera impenetrabile per cui era stata scelta. E’ questo ambiente rigido ed inselvatichito l’approdo di Patrizia. A differenza di altri lavori fatti insieme, qui non c’è progetto, piuttosto una tensione, un groviglio, che cela il suo ago magnetico… Abbiamo parlato poco: difficile dire di più.
E’ un colletto d’albero, lo spacco a terra di un salice aperto in due ed inglobato nella siepe incolta, la molla che innesca la nostra voglia giardiniera: il primo atto è stato individuarlo e disseppellirlo dalla coltre sempreverde del lauroceraso. L’apertura, la ferita nascosta, sembra rimarginata, eppure si avverte la tensione, lo strappo continuo del peso crescente dei rami non più verticali. Sia chiaro: non è un senso di soccorso che chiama, piuttosto un’assonanza di vibrazioni…
Le linee sinuose dei due tronchi di salice si divaricano come gambe aperte e si confondono con quelle più serpeggianti dei rami di lauroceraso; tutto è stato pulito fino ad altezza uomo: neppure una gemma a nascondere le forme.
Il segno che più marca il nostro esserci è affidato ai sottili rami di salice stretti a fastello delle dimensioni di un braccio e fissati con fil di ferro in fasci lunghi e flessuosi. E’ il tocco, il tratto di Patrizia che con questa mina vegetale lascia la sua impronta e compone quella che sembra una figura di un essere in movimento. Distinguo con precisione occhi e grembo.
A terra, nel nudo improvvisamente illuminato, abbiamo piantato a spaglio felci e consolide, e un elleboro. All’esterno, una massa di rovi che appartiene all’incolto oltre la siepe, lancia le sue spire radicanti, sembra un polpo gigante che attacca lo scafo giardino. Alcuni getti li lasciamo; nonostante le spine, questo incombere dall’alto e spingere di lato ci piace.
E’ il tempo la qualità che più distingue il giardino come forma d’arte specifica, il tempo che esprime la vita. Spesso imponderabile e imprevedibile, il vivente cambia continuamente la scena; ad oggi, in questo ritaglio, il tocco più felice è stato l’improvvisa esplosione dei corpi fruttiferi di Armillaria mellea, il bel fungo definito spietato con i vegetali e alimentare subdolo per gli umani. Un tempo, quando sul cibo eravamo meno accorti, lo chiamavamo famigliola buona, perché spurgato e cotto, il carpoforo, è una prelibatezza. Oggi la scienza tossicologica ci segnala che pur trattato con l’esperienza accumulata in generazioni, dobbiamo riconoscerlo a commestibilità incostante, ovvero pericoloso. Altro aspetto è la sua natura doppia di saprobionte-parassita, cioè di una forma di vita che si nutre in una prima fase di legno morto (saprofita) e in una successiva di legno vivo (parassita), capace quindi di stendere nel giro di un lustro ogni presenza vegetale arborea.
Trovo che sia nel colore che questa forma di vita mostra tutta la sua ambigua e potente seduzione: nasce di un pallido crema che vira velocemente verso un ocra caldo, un color miele, da qui il nome mellea. A questo punto rilascia la sua coltre di spore bianca e farinosa e in poche ore inizia un cambio vorticoso di tinte: si entra nel dominio del marrone e si passa dal fulvo al testa di moro; in un attimo, in una massa ormai liquefatta, non rimane che il nero. La luce sembra correre risucchiata.
Ad oggi, di questo lavoro, affascina un’idea di composizione, di quadro, di cellula in grado di mostrare le sue parti. La vita esprime i suoi cicli e ci lega indissolubilmente.
Paolo Tasini
Patrizia Merendi, Fiorella Fiocchi e Paolo Tasini
hanno il piacere di invitarvi all’inaugurazione dell’opera di land art “Preludio“
domenica 6 maggio 2018 in via Felicina, 1 Bologna
Preludio è un’istallazione che introduce il Giardino delle Stanze Sonore di Patrizia Merendi. Eseguita in salice in pelle, annuncia il clima e il carattere del luogo e chiama come un grande sipario aperto il visitatore all’esperienza del giardino.
Orari di visita*
Domenica 6 maggio 2018
mattina: ingressi ore 10.00 – ore 11.30
pomeriggio: ingressi ore 15.00 – ore 16.30 – ore 18.00
La visita della durata di circa un’ ora sarà guidata dagli autori dell’opera e comprenderà un percorso all’interno del giardino.
Data la particolarità del luogo gli ingressi saranno organizzati per gruppi di massimo 12 persone, esclusivamente su prenotazione.
Per la prenotazione potete contattare i seguenti numeri:
Patrizia Merendi 339 7922 208
Fiorella Fiocchi 347 7993396
INGRESSO GRATUITO
* data la limitatezza degli spazi di servizio si richiede la massima collaborazione all’entrata e all’uscita del parcheggio.
Ho sempre creduto che un giardino nascesse da un progetto realizzato su carta e poi messo in pratica. Mi rendo conto che ci sono modi diversi di fare giardino e per me, che ho sempre praticato l’esperienza dell’arte, plasmare stanza per stanza questo ambiente è stato, ed è, come dipingere su una tela viva e mutevole.
Nel fare giardino è il dialogo con la vita che più mi sorprende e che chiede un paziente ascolto per accogliere il nuovo, modificando continuamente la mia pennellata di apprendista giardiniere.
Questa mutevolezza fa sì che “l’opera” non sia mai compiuta. Ogni traguardo pone altre mete da raggiungere… e l’avventura continua!Così mi piace immaginare questo giardino come un atelier a cielo aperto dove io non sono l’autore, ma l’interprete operante del Genius Loci. Il cantiere è sempre aperto.
Forse domani scopriremo un’altra stanza.
Patrizia